Etica criminale – Fatti della banda Vallanzasca

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È Capodanno. Renato Vallanzasca attende in isolamento gli agenti che hanno l’ordine di scortarlo all’Asinara. Questa volta non ce l’ha fatta. Fine della corsa, si scende. Era iniziata trent’anni prima. Milano, il centro e la periferia, l’insofferenza per l’autorità e la scoperta precoce della vocazione. “Cè chi nasce per fare lo sbirro, chi lo scienziato, chi per diventare Madre Teresa di Calcutta. Io sono nato ladro”. Famiglia normale. Debutto “criminale” a otto anni: assalto alle gabbie di un circo per liberare gli animali. Le sbarre gli hanno sempre fatto schifo. Studi di ragioneria e furti nelle ville sul lago, quelli gli vengono meglio. Poi la prima banda, le rapine, le banche, i soldi facili, la bella vita e le belle donne. Sparatorie, carcere e rocambolesche evasioni. La leggenda del “Bel Ren”, il fascino del rapinatore gentiluomo che resiste a omicidi e rapimenti, e anzi si ingigantisce. Sempre in fuga. Sempre in gioco seguendo la sua etica del crimine, le regole, per cui due cose su tutte non si possono perdonare: trafficare con la droga e tradire, diventare un infame. Ma adesso il gioco è finito. Il conto è quattro ergastoli, duecentosessanta anni di carcere. Se mai uscirò – si dice – questa volta sarà da uomo libero.

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